Alienazione tra incanto e disincanto

Fermignano ospiterà nella Sala Bramante l’Opera dell’artista di origini pugliesi Marco Santoro, docente al Liceo artistico di Urbino, erede e amante della grande pittura del periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Romanticismo, Impressionismo ed Espressionismo costituiscono le sue maggiori fonti di ispirazione. È un attento e sincero osservatore della realtà che scruta, indaga in ogni suo aspetto e forma, mediante l’utilizzo

di materiali e tecniche diverse: grafite, acquerello e colori ad olio. La sua ricca produzione artistica spazia dalla rappresentazione di piacevoli paesaggi naturali, colti nelle diverse ore del giorno, alla rappresentazione di figure umane, femminili, maschili ma anche esseri asessuati, privi di identità, restituendo all’osservatore la visione di un mondo intriso di grandi verità, spesso drammatiche. E’ quello che accade visitando la mostra, il cui tema è l’alienazione che oscilla tra visioni d’incanto e visioni di disincanto. I visitatori si troveranno circondati, nella sala principale, da figure femminili, che ricordano, in alcune opere, Venere, figura mitologica presa a modello come ideale di bellezza e divenuta soggetto di innumerevoli opere d’arte, fin dall’antichità. Venere viene qui rivisitata ed interpretata dall’artista contemporaneo, non più come ideale di bellezza, per quanto l’incanto ancora si percepisca nella resa dei colori e delle forme create sapientemente con la pittura ad olio, ma come presenza alienata, il cui sguardo, sempre rivolto verso lo spettatore, nasconde, in alcune opere, mediante ripetute velature di pennello, l’essenza della donna, perché l’occhio è vuoto, privo dell’iride, come ad indicare il vuoto dell’anima e la mancanza di passione vitale. Altre figure femminili, invece, sono caratterizzate da uno sguardo talvolta malizioso e accattivante, talvolta dimesso e assente. Sguardi comunque intensi, che hanno il potere di sedurre, di incantare ma, al contempo, disincantare e disorientare chi li osserva.

Lo stupore e il disorientamento è dato non solo dagli sguardi ma anche dalla diversa fisicità della donna, talvolta rappresentata con corporatura esile, ridotta all’osso, con pelle livida, restituendo l’immagine di una giovane donna anoressica, adagiata su un divano spoglio e scarno. Altre volte, le forme femminili sono ricche, abbondanti, in contrasto con uno spazio assente e atemporale, in cui la figura non trova una sua reale collocazione e rimane, così, priva di identità. In altre ancora, l’immagine della donna è simile ad un ectoplasma che cerca una sua identità emergendo da uno sfondo cupo, dal quale, però, è difficile prendere forma.

Il corpo femminile, manifestato in tutta il suo incanto, è alienato dalla sua coscienza più intima e umana. Corpi di incantevole bellezza immersi in una quasi assenza di elementi riconducibili alla realtà, vuoti cromatici ed elementi del corpo che si mimetizzano in esso.

Queste opere racchiudono ed esprimono un concetto caro all’autore: quello dell’alienazione, termine che deriva dal greco allos, “altro” e fa riferimento a tutto ciò che è estraneo, all’atto di allontanare o dall’estraniare da sé.

Nell’artista, però, il concetto di alienazione non si trasforma in allos, che si proietta nella natura, nel mito, in Dio o nel lavoro, ma è un’alienazione la cui proiezione è il risultato di una realtà virtuale dove il vuoto non è l’aspirazione dell’alienato ma la sua apatica condanna.

Marco sente nella società il vuoto e lo vede come risultato del progresso tecnologico. Un vuoto che divora lo spirito e restituisce un’immagine dell’io come forma senza passione vitale: un corpo immerso nell’assenza e deprivato dell’anima.

L’artista mediante l’atto creativo dà voce a sentimenti universali di paura, orrore, vuoto, oscurità, solitudine e silenzio. Egli vive profondamente i drammi sociali e la sofferenza umana. Non si estranea da essa attraverso l’arte, non evade in un mondo idilliaco, se non, probabilmente, quando dipinge piacevoli paesaggi “en plein air” per fuggire dal dolore.

La sua poetica appare ancora più esplicita quando dalla sala principale ci si sposta nelle sale adiacenti: qui si è di fronte ad immagini di esseri asessuati, privati della loro dignità e identità, esseri esangui e scheletrici, corpi ammassati l’uno sull’altro, un vero e proprio carnaio; colpisce la rappresentazione di una “Venere” dal corpo emaciato, deperito, ridotta pelle ossa, dallo sguardo ancora vivo ma pervaso da rassegnazione, che, nonostante tutto, prova ancora a mettersi in una posa accattivante, cercando di esprimere quel poco di femminilità e sensualità che lei sente ancora di avere. Si passa alla visione di ritratti dalla indefinibile identità sessuale, dai lineamenti del viso deformati, occhi e sguardi allucinati: sono i folli, gli alienati dall’uso di sostanze stupefacenti, un tipo di individuo che l’artista non percepisce né donna né uomo, né giovane né vecchio, ma soltanto come l’incubo della loro condizione di esseri che vivono ai margini dell’umanità.

La ricerca pittorica e cromatica è volta a tradurre gli effetti della droga e dell’alcool, che deturpano gli sguardi e i volti e divengono, così, espressione di assenza e icona emblematica dell’alienazione, strumento mediante il quale l’individuo evade dalla realtà e si estranea da sé e dagli altri.

Lo spettatore, tra incanto e disincanto, si confronterà con una dimensione tragica e commovente che lo porterà a riflettere su di sé, sugli altri, sulla realtà sociale, sul senso di umanità e chissà se percepirà le immagini alienate di Marco come altro da sé o in esse si riconoscerà.

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